giovedì 24 novembre 2016

I costumi nell'Opera di Pechino



Nel 1930 l'attore Mei Lanfang (1894 – 1961) si esibisce negli Stati Uniti nel ruolo per cui è famoso, quello della Dan, ovvero il ruolo femminile del Jīngjù. Le cronache dell'epoca, sbalordite da questa forma di teatro culturalmente così lontana e affascinante, decretano che con la sua esibizione Mei Lanfang ha colmato le distanze tra Oriente e Occidente, dove il Jīngjù viene chiamato Opera di Pechino, per far riferimento ad una forma d'arte spettacolare tradizionale che, come la nostra opera lirica, unisce canto e recitazione.

Convenzionalmente le origini del Jīngjù vengono fatte risalire al 1790, quando quattro grandi compagnie provenienti dalla provincia di Anhui arrivarono a Pechino e, influenzate da altre compagnie provenienti negli anni avvenire dalla regione di Hubei, fondarono i presupposti per un nuovo teatro tradizionale, che sostanzialmente si definisce nell'unione tra varie forme teatrali e performative più antiche. A metà del XIX secolo il Jīngjù è lo spettacolo più celebre in tutta la Cina, e raggiunge la sua forma definitiva. Le rappresentazioni possono avere due argomenti o trame: ci sono le storie private, d'amore e di intrigo, e le storie a sfondo militare, con battaglie e grandi guerrieri.


I ruoli nell'Opera di Pechino 
Come per gran parte del teatro orientale più che di personaggi si può parlare di "tipi", o più semplicemente "ruoli", riconoscibili dal pubblico dal costume e dal trucco, entrambi convenzionali.
Le distinzioni principali sono fatte in base al sesso e, soprattutto, all'estrazione sociale del ruolo interpretato e al suo orientamento, buono o malvagio.
Quattro sono i ruoli principali:

Sheng: Ruolo maschile, suddiviso in laosheng (solenne e anziano), wusheng (il guerriero) e xiaosheng (il giovane).

Da sinistra: laosheng, xiaosheng e wusheng
 
 Dan: Ruolo femminile, inizialmente interpretato unicamente da attori maschili, suddiviso in laodan (solenne e anziana), wudan (la guerriera), daomadan (la giovane guerriera), qingyi (virtuosa e nobile) e huadan (estroversa e nubile).

Da sinistra: laodan, wudan, qingyi e huadan
 
Jing: Personaggio dal volto dipinto, può interpretare parti secondarie o primarie, dal carattere irascibile. Esistono circa 15 principali tipi di trucco (Lianpu) per il Jing, con molte varianti.



Chou: Ruolo comico e clownesco, solitamente personaggio di bassa estrazione sociale.

A sinistra: Jing. A destra: Chou


 
I costumi
La messinscena dell'Opera di Pechino esclude la fedeltà al contesto storico e geografico, e risponde a tre criteri principali: sintesi, stilizzazione e convenzione (Bonds, 2008, pp.28-29). La sintesi indica la compresenza di esibizioni di danza e di canto da parte degli interpreti, la stilizzazione alla resa estetica e spettacolare dei comportamenti umani nel quotidiano, la convenzione ai codici stereotipati e standardizzati che consentono una comunicazione immediata, visiva e non verbale, tra interpreti e spettatori.

I costumi, chiamati sol termine generico di Xingtou, sono suddivisi i quattro categorie principali: Mang, Pie, Kao e Toukui.

I personaggi che rappresentano membri della famiglia imperiale o figure di alto rango indossano il Mang, un abito lungo con aperture ai lati che fanno ondeggiare l'abito ad ogni movimento dell'attore, e su cui è ricamato un dragone con diversi dettagli e caratteristiche a seconda del personaggio.

Il Pie è invece un abito informale, meno elaborato, a volte decorato con fiori e altre fantasie oppure a "tinta unita", riservato ad aristocratici oppure a personaggi mediamente importanti, e solitamente indossato in contesti e ambientazioni domestici.

Per le scene di battaglia i guerrieri (maschili e femminili) e i militari indossano il Kao, un'armatura molto decorata; le quattro bandiere sono un riferimento alla preparazione del combattimento, e in passato rendevano nota al pubblico la fazione di appartenenza del personaggio. Le wudan indossano kao più elaborati e colorati, con una mantellina molto decorata detta "scialle di nuvole".

I famosi e splendidi copricapo dell'Opera di Pechino (o Toukui) sono accessori che determinano l'importanza del personaggio: più il Toukui (dagli elmi, ai cappelli, alle corone) è alto e ricco, più alto è il rango di chi lo indossa. I dettagli, come le cascate di perle o le piume, possono essere mosse dall'attore in modo da accentuare la mimica facciale e le emozioni; ad esempio: il guerriero può muovere la testa e le piume del suo copricapo per manifestare il suo sentimento di rabbia ed energia.

I costumi che non hanno una connotazione particolare sono chiamati semplicemente "yi" ("abito").




Mang per il ruolo di un militare con dragone, che simboleggia la forza e la bravura in guerra. Fonte: https://iopera.wordpress.com/


Pie per alti funzionari e le loro mogli, indossato in contesti domestici.La gru ricamata è simbolo di saggezza e longevità. Fonte: https://iopera.wordpress.com/



Wusheng e wudan che indossano il Kao completo di bandiere e Toukui con piume di fagiano. Fonte: http://www.chinaopera.net/




Toukui in seta e perle riservato alle imperatrici, alle concubine o alle nobildonne in scene importanti. Fonte: https://iopera.wordpress.com/
Nei costumi dell'Opera di Pechino vengono utilizzati dieci colori dal valore simbolico, i cosiddetti shang wu se, ovvero i"primari" (giallo, rosso, verde, bianco e nero) e gli xia wu se, o “secondari” (blu, viola, rosa, blu chiaro e marrone chiaro).

I colori primari sono legati ai cinque elementi della tradizione: acqua (nero), terra (giallo), fuoco (rosso), legno (blu e verde) e metallo (bianco). Ecco a quali personaggi sono riservati:

  • Giallo: Imperatore, membri della famiglia imperiale
  • Rosso: Nobili, comandanti dell'esercito
  • Verde: Generali e politici
  • Bianco: Personaggi giovani
  • Nero: Personaggi di rango inferiore






    Bibliografia e sitografia di riferimento

    Bonds, Alexandra B., Beijing opera costumes. The visual communication of character and culture, Honolulu, University of Hawaiʻi Press, 2008

    Azzaroni G., Tibet, Cina, Mongolia, Corea, vol. III, in Id. Teatro in Asia, Bologna, CLUEB 1998 



    Claudia Fasano

martedì 25 ottobre 2016

Costume, costumista e pubblico. Riflessione sulle finalità comunicative dell'abito di scena

Stasera andranno in onda su Rai1 altri due episodi della serie tv "I Medici – Masters of Florence" diretta da Sergio Mimica-Gezzan con con Dustin Hoffman, Richard Madden e Sarah Felberbaum.
Il clamore si è scatenato fin dalla trasmissione dei primi episodi una settimana fa. Una delle più feroci e autorevoli critiche è quella dello storico dell'arte e scrittore Philippe Daverio che ha definito da nuova produzione Rai nientemeno che "Crimine contro i beni culturali", facendosi portavoce di un'opinione a quanto pare condivisa dai più a proposito della resa sullo schermo di una delle famiglie più celebri della storia e di un periodo storico decisivo per la cultura occidentale.
I motivi del flop, perché di questo purtroppo si è trattato, sono molti: dalla recitazione, al trucco, ma soprattutto alcuni imperdonabili e grossolani errori storici e filologici che riguardano anche -ahimè- i costumi di scena disegnati da Alessandro Lai e dalla Sartoria Tirelli.
Le risposte alle critiche di alcuni professionisti sono state altrettanto feroci: c'è chi difende ed esalta le scelte del costumista, c'è chi giustamente sottolinea che quando si tratta di fiction i vari professionisti hanno meno "responsabilità artistica" rispetto ad una produzione per il cinema o per il teatro: la differenza sta nel pubblico, in questo caso meno attento alla filologia e molto più attratto da elementi storici immaginati, non reali.
Senza voler dunque entrare nel merito della serie tv "I Medici", questa è indubbiamente un'occasione per riflettere sul ruolo del costumista nelle varie discipline dello spettacolo e sulla ricezione del suo lavoro da parte del pubblico.
E proprio da quest'ultimo è necessario partire.
L'abito di scena esplicita un valore comunicativo molto forte all'interno della performance (qualunque essa sia), forse il più forte: l'involucro di stoffa in cui si presenta l'attore è subito carico di significato nel momento in cui appare, perché l'abito nella nostra stessa società è già un linguaggio capace di veicolare moltissime informazioni, dando talvolta luogo a degli sgradevoli cliché.
Se dunque lo spettacolo, in quanto esperienza estetica, si configura per lo spettatore come un'esperienza in cui convergono inevitabilmente reazioni emotive, reazioni mnemonico-cognitive e stimoli intellettuali, il costume teatrale diventa oggetto privilegiato per veicolare questo significato e per mettere in moto questo complesso sistema di interpretazione ed emozione.
A questo punto la domanda è: esistono più tipi di pubblico? Certamente, come esistono persone più inclini alla fiction che al teatro o viceversa, esistono anche diversi tipi di ricezione del messaggio passato dal
costume di scena, e ciò non sempre va di pari passo con il livello culturale del pubblico in questione, come potrebbe sembrare.
Un esempio pratico: durante il mio lavoro di guida nelle esposizioni della Fondazione Cerratelli i visitatori impazzivano alla vista del costume di Danilo Donati indossato da Olivia Hussey dal film "Romeo e Giulietta" di Franco Zeffirelli (1968), perché erano emotivamente legati a quel film, mentre a volte rimanevano più scettici di fronte agli abiti disegnati dallo stesso costumista per "Fratello Sole, sorella luna"(1972). Di contro i bambini erano molto più attratti da questi ultimi perché la loro attenzione era più focalizzata verso una conoscenza dell'abito basata sulla loro percezione tattile, data dalla corda dorata e dalle placche in metallo applicate sul piviale di Papa Innocenzo III, nel film interpretato da Alec Guinness.
Costume di Danilo Donati per Romeo e Giulietta di Zeffirelli (1968). Conservato presso: Fondazione Cerratelli. Fonte: https://www.europeana.eu/

Costume di Danilo Donati per Fratello sole, sorella luna di Zeffirelli (1972).
Conservato presso: Fondazione Cerratelli. Fonte: https://www.europeana.eu/

Nelle mostre espositive e nei magazzini dei musei il costume teatrale e cinematografico indubbiamente perde parte del suo valore comunicativo, in questo senso ha bisogno di essere visto sulla scena o sullo schermo. Come oggetto si trova a dover affrontare un'evidente mancanza di specificità e autonomia, poiché, nel suo studio, deve essere sempre trattato nella sua triplice natura: come oggetto d'arte, come oggetto storico, e come oggetto performativo e drammaturgico. Questa peculiarità deve essere certamente considerata come un'opportunità preziosa di interazione fra le arti, tuttavia nello specifico il costume teatrale e cinematografico si ritrova spesso indebolito nella sua terza accezione, nel suo valore chiave di elemento di scena.
E dunque il costumista che ruolo ha?
Prima di tutto, assolutamente, non quello di storico. E questo lo sostiene anche Roland Barthes nel suo saggio Le malattie del costume teatrale (1955), in cui individua tre “malattie”, tre errori comuni dell'abito di scena impoverito della sua funzione comunicativa, e la prima è appunto l'“ipertropfia della funzione storica, ossia l'eccessivo verismo dell'abito di scena che non riesce a inserirsi nel quadro più globale della messinscena.
Si deve tener conto che la stessa nascita convenzionale del mestiere del costumista viene fatta coincidere con l'attore François-Joseph Talma, il quale alla fine del XVIII secolo scandalizza il pubblico francese con la sua pretesa di “verità sulla scena” e sulla sua attenzione, all'epoca assolutamente trascurata, per il costume che non oggi definiamo “storico”.
Ora, Barthes parla di costume teatrale, e non cinematografico o men che mai del costume nella fiction televisiva, ma certamente la prima
conclusione a cui arriviamo è che al giorno d'oggi con le correnti artistiche del secolo passato (soprattutto le avanguardie) e con la diffusione dei nuovi media, dal cinema, alla televisione, a internet, la fedeltà storica non può essere considerata l'unica chiave di lettura dell'abito di scena e della sua valenza comunicativa.
Il Settecento di "Barry Lyndon" di Stanley Kubrick non è il Settecento di "Marie Antoinette" di Sofia Coppola. Eppure la costumista, Milena Canonero, è la stessa; e non si tratta solo di una differenza tra le mode di due nazioni (la Francia del rococò e l'Irlanda degli anni 60 del Settecento), si tratta dei riferimenti intenzionali, di rimandi artistici di cui un buon costumista si serve in accordo con il volere di un buon regista, per dare corpo e carattere ai personaggi e alla storia. 

Kirsten Dunst in Marie Antoinette (2006)
Barry Lyndon, 1975
C'è chi ha fatto sicuramente della ricerca filologica dell'abito il suo cavallo di battaglia, basti ricordare i nomi di Gino Carlo Sensani, Piero Tosi, Anna Anni e Franca Squarciapino. Ma se si va a guardare nello specifico anche in questi esempi illustri salta all'occhio un dettaglio, il colore, un particolare della foggia che lascia intendere una volontà precisa di dare a quel costume un suo carattere, una sua specificità all'interno del disegno registico e dell'opera stessa.
In poche parole: tutto è possibile.
Ci sono dei limiti? Teoricamente no, purché ogni scelta fatta in merito all'ideazione del costume sia, come abbiamo visto, motivata da un intento artistico e intellettuale calibrato all'opera a cui lo stesso costumista va a rapportarsi


Costume di Piero Tosi per Ludwig di Luchino Visconti (1973). Fonte: Sartoria Tirelli - http://tirellicostumi.com/
 
Anna Anni, costume per il ruolo di Elisabetta I in Maria Stuarda di Schiller, diretta da Zeffirelli (1983). Conservato presso: Fondazione Cerratelli. Fonte: https://www.europeana.eu/
E il resto? Il resto è affidato al pubblico e al suo gusto personale, ovviamente influenzato anche dal livello culturale, diverso da spettatore a spettatore.
Ho sentito tempo fa un gruppo di signore lamentarsi dei costumi di una messinscena di "Madama Buttefly", in cui la protagonista si presentava in pantaloncini e tank top con la bandiera americana (il regista è Àlex Ollé, lo spettacolo ha debuttato nel 2014, i costumi sono di Lluc Castells). Questo fa capire quanto il pubblico tenga in considerazione il costume, a torto o a ragione, perché è legato ad una certa rappresentazione "tradizionale", o per pregiudizio, o perché semplicemente ha una sua idea di spettacolo, complici o meno le sue competenze professionali o intellettuali.
Va benissimo il puro intrattenimento, l'abito che "fa sognare", ma occorre avere sempre un'alternativa. Sebbene quindi ognuno conservi una sua personale opinione a riguardo, è importante ricordare che negare le potenzialità comunicative dell'abito di scena (del teatro, dell'opera lirica, della televisione, del cinema, della danza) equivale a relegare quest'ultimo ad una infelice condizione di elemento superfluo e inutile decorazione, e ad impoverire e mortificare la figura del costumista.


Bibliografia di riferimento:

Barthes R., Le malattie del costume teatrale, in Id. Saggi critici, a cura di Gianfranco Marrone, Einaudi, Torino 2002, pp. 40-50.

Barthes R., Il senso della moda. Forme e significati dell'abbigliamento, Einaudi, Torino 2006.

Bignami P., Ossicini C., Il quadridimensionale instabile. Manuale per lo studio del costume teatrale, UTET università, Torino 2010.

Claudia Fasano

domenica 9 ottobre 2016

Eiko Ishioka. La costumista del surreale


La carriera di Eiko Ishioka, costumista visionaria scomparsa nel 2012, comincia ufficialmente come graphic designer nell'ambiente pubblicitario. Dopo la laurea alla Tokyo University lavora per la Shiseido nel 1961 e per la catena di grandi magazzini Parco negli anni '70, e contrasta, con il suo talento e la sua tenacia, lo stereotipo secondo cui il mondo della pubblicità, soprattutto in Giappone, è un mondo solo per uomini, in cui non solo l'artista trova il suo posto, ma ottiene anche successo ed apprezzamento.

Eiko Ishioka afferma così le sue straordinarie capacità creative in una cultura, quella giapponese, che possiede già una secolare tradizione di arti perfomative (come il noh ed il kabuki) estremamente legata all'aspetto visuale, e in un paese che si sta aprendo alla realtà globale con la tecnologia.

Nel 1985 arriva il primo ingaggio nel cinema con Mishima: A Life in Four Chapters, per il quale il regista Paul Schrader le affida il ruolo di art director. Nel 1988 è il turno del teatro, dove Eiko disegna scenografia e costumi per il debutto a Broadway di M. Butterfly di David Henry Hwang, e in cui l'artista dimostra di saper fondere abilmente la cultura orientale e quella occidentale attraverso il medium dell'abito e nelle scenografie astratte, tinte di un vibrante rosso (che diventa un tratto distintivo della sua produzione e del suo stile).

Il risultato sono due nomination per il Tony Award e un premio per il contributo artistico al Festival di Cannes.

Il rapporto con il cinema continua con Dracula di Bram Stoker (1992) di Francis Ford Coppola. Il regista decide di investire moltissimo nella produzione dei costumi, definendoli una parte fondamentale per la caratterizzazione della storia e dei personaggi. Qui Eiko scardina ogni chiché della rappresentazione del Principe delle Tenebre (nel film interpretato da Gary Oldman), trasformandolo in una creatura androgina, apparentemente senza età, eccentrico quanto inquietante. L'attenzione alla filologia storica dell'abito è tralasciata in favore di una mirata reinvenzione, in favore del surreale, del simbolismo, dell'incubo. 



 

Con The Cell (2000) e il successivo The Fall (2006) Eiko Ishioka firma il suo sodalizio con il regista Tarsem Singh, che continuerà fino alla morte della costumista. Questi due film, incentrati su una "realtà doppia", fanno del costume e della scenografia il loro cavallo di battaglia: niente come gli abiti indossati dai personaggi riesce a definire l'atmosfera del sogno, dell'allucinazione e della fantasia. Così in The Fall, mentre giace in un letto di ospedale Roy Walker (Lee Pace) ha una semplice camicia da notte, ma nel mondo da egli stesso creato per la piccola Alexandra è il Bandito Mascherato, un eroe in un fantasioso costume da torero. E Catherine Deane (Jennifer Lopez), l'assistente sociale in The Cell che "viaggia" all'interno della mente del killer Carl Stargher, si ritrova catapultata in abiti rigidi e sensuali, fatti di collari e maschere dal sapore quasi fetish.



I lavori di Eiko Ishioka si muovono fra sensualità esotica e crudeltà selvaggia, quasi grottesca. Il candido abito nuziale con la cascata abbagliante di perline di Sorella Evelyn in The Fall, il vestito di piume bianche di Catherine Deane in The Cell, le fulgide armature degli dèi in Immortals (2011), contrastano con le corazze pesanti e quasi caricaturali dell'esercito del Governatore Odious e di quelle delle milizie del re Iperione o dei Titani imprigionati, o la stessa armatura rossa con rilievi simili a muscoli di Vlad Tepes in Dracula. Il mondo che crea Eiko Ishioka è un mondo brutale, in cui pesanti elmi privano gli individui della loro umanità e li condannano ad essere carnefici o schiavi, in un'atmosfera di violenza e sadismo. Per contrasto c'è invece un mondo di elegante bellezza, rappresentato dalle eroine, dagli eroi, dalla salvezza.





Altro tratto distintivo della produzione di Eiko è la continua ricerca e la reinvenzione degli abiti tradizionali dell'Oriente, un Oriente sconfinato, composto da migliaia di sfaccettature ed influenze culturali. Il variopinto abito in stile cinese con il copricapo a ventagli di Sorella Evelyn, le ampie gonne dei dervisci nella loro danza mistica, l'abito verde brillante dell'Indiano in The Fall, ed i veli rossi delle sacerdotesse dell'oracolo in Immortals, che ricordano abiti tradizionali dell'Afghanistan o dell'Iran, tutto contribuisce a creare un'atmosfera in costante ricerca di un esotico dall'estetica inebriante e piena. Gli scenari mozzafiato e le architetture di famose città e monumenti non fungono solamente da sfondo ma contribuiscono a dare ancora più forza ai personaggi nel loro costumi: le piramidi di Giza in Egitto, la Grande Muraglia, le valli del Ladakh, Jodhpur (la "città blu"), Jaipur, Praga, Roma: tutto è forma e colore nella visione di Eiko.



La nomination all'Oscar per i migliori costumi arriverà postuma, nel 2013, per il film Biancaneve. Qui Eiko Ishioka dà vita insieme al regista un mondo fiabesco ma anche ironico, esagerato. La Regina Cattiva, interpretata da una divertente e caustica Julia Roberts, si muove in ampi abiti dal taglio tardo cinquecentesco, dai colori accesi, con gorgiere dalle dimensioni volutamente eccessive e ingombranti sottostrutture: la malvagità del personaggio si misura con la sferzante, ridicola, quasi ingombrante esagerazione con cui si presenta al pubblico, e con cui afferma il proprio potere.


 Eiko Ishioka ha anche diretto il video di Björk "Cocoon" nel 2002, in cui la costumista ricrea l'estetica del butoh, e ha disegnato gli abiti di scena per la cantante Grace Jones nel suo tour del 2009, oltre ai costumi per il Cirque du Soleil nel 2002.
Muore a Tokyo per un tumore al pancreas, nel gennaio 2012.

Claudia Fasano

lunedì 12 settembre 2016

Evoluzione del costume teatrale del Novecento. Pt.2. Fra realismo e avanguardia


La messinscena simbolista
Già a partire dall'ultimo decennio dell'Ottocento i criteri e le esigenze del naturalismo, anche per quanto riguarda il costume, vengono quindi nuovamente messi in discussione: la svolta simbolista, con le esperienze teatrali di Paul Fort e Aurélien Lugné Poe (Fort inaugura formalmente il teatro simbolista in Francia fondando nel 1890 a Parigi il Theatre d'Art, che diventerà, nel 1893 il Théâtre de l'Œuvre con Lugné Poe), si pone in questo senso in opposizione dichiarata alla concezione naturalistica dell'allestimento: il teatro, che in questo modo diviene luogo privilegiato per l'incarnazione dell'immaginazione, deve liberarsi dalle catene della verosimiglianza, è un luogo dove si esplicita materialmente e fisicamente la poesia e la potenza del testo simbolista.
L'impianto scenografico conclude la sua funzione di décor e verosimiglianza, e viene incoraggiata l'azione dei nuovi visionari pittori per la realizzazione della scena e dei costumi.
Le pochissime fonti che ci sono pervenute ci offrono comunque un'idea complessiva della messinscena simbolista: i fondali sono grandi tele dipinti di colori significativi, come l'oro o il verde, con elementi evocativi di un'ambientazione appena accennata: l'impianto scenico è una celebrazione quindi di quella “foresta di simboli” che Charles Baudelaire aveva illustrato nel poema Corrispondenze circa vent'anni prima.

Stanislavskij, Appia e Craig
All'interno di un così complesso clima di innovazione abbiamo anche un'esigenza di ritorno alla verosimiglianza: per conferire autenticità psicologica al personaggio la scena deve essere lo specchio di quella quotidianità che la linea naturalista aveva preconizzato con Antoine. Konstantin Stanislavskij, fondatore insieme a Dančenko del Teatro d'Arte di Mosca nel 1898 e ideatore del Metodo, espone la questione del costume in alcune pagine dell'Etica: per il regista è l'abito che nella rappresentazione acquista il valore e il significato del dramma e del personaggio, e si trasforma così nel “vestito della persona che doveva rappresentare”.
Il costume, così come altro oggetto o accessorio ci scena, si trasforma in reliquia, e l'attore deve interagire con esso conferendovi il significato del testo e la sua profondità psicologica. L'attenzione ai costumi, nell'idea complessiva dell'allestimento, è essenziale, poiché definisce la materializzazione fisica del personaggio sull'attore, ed è quindi uno strumento per far emergere la sua interiorità.
Adolphe Appia, scenografo svizzero profondamente influenzato dalla Gesamtkunstwerk (opera d'arte totale) wagneriana, auspica invece ad un abbandono dell'idea di impianto scenico bidimensionale in cui tutti gli elementi (luci, elementi scenografici, costumi, presenza dell'attore) siano perfettamente coordinati per creare il volume della scena, e devono perciò acquisire plasticità.
Sulla corporeità e sul simbolismo evocativo della messinscena insiste anche Edward Gordon Craig, ideatore del concetto di über-marionette (“supermarionetta”) e della pratica degli screens, (pannelli scolpiti dalla proiezione di fasci di luce di vario colore, dal valore fortemente simbolico) in cui a seconda della direzione, i corpi degli attori e la cromia dei loro costumi, dalla linea essenziale, si adattavano contribuire, di volta in volta, a questa reinvenzione plastica della scena.
Celebre l'allestimento di Amleto al Teatro d'Arte di Mosca nel 1911, per cui Craig rinuncia a qualsiasi connotazione storico-filologica della scenografia e soprattutto dei costumi: il protagonista indossa un franc nero, e contrasta con i colori violenti e le linee essenziali dei costumi degli altri personaggi, i quali si adattano cromaticamente agli altri elementi della scenografia.

Il corpo meccanico: la messinscena futurista e il costruttivismo di Mejerchol'd
Già agli inizi del Novecento la Russia diventa la roccaforte dell'avanguardia e di movimenti artistico-culturali che influenzeranno l'Europa dal primo decennio del XX secolo. La Rivoluzione russa non aveva solo condizionato le sorti della storia mondiale, ma aveva dato voce e spinta propulsiva a quei fermenti artistico-culturali fondati sulla modernità e sulla meccanizzazione, ovvero il movimento costruttivista, cubista e futurista.
L'allestimento scenico futurista aveva raccolto i criteri delle nuove forme di spettacolo come il teatro di varietà, basato sul veloce susseguissi di sketches, era stata profondamente influenzata dall'impatto estetico dei Balletti Russi di Djagilev e dalle esibizioni trascinanti della danzatrice Loïe Fuller, e si poneva come promotrice di un'arte fortemente tecnologica e provocatrice. L'idea tradizionale di teatro viene totalmente scardinata a favore di un'arte performativa energica e di un impianto scenico in continuo stato di mutamento, sintesi, movimento, plasticità e rivoluzione.
Nel 1916 Djagilev commissiona a Fortunato Depero le scene e i costumi per il balletto Le chant du rossignol, che non andrà sfortunatamente in scena. Depero progetta “dei costumi dalle forme cristalline, provvisti di una stilizzazione plastica ben più rigorosa, ai quali doveva corrispondere una scena costruita, irta di forme vegetali lussureggianti ma anch'esse come ridotte allo stato minerale.”
Vsevolod Mejerchol'd abbandona progressivamente la concezione di scena naturalista per sviluppare quelle teorie di nuova interpretazione attoriale che saranno alla base della biomeccanica.
Nella rappresentazione di Le Cocu Magnifique del 1922 l'artista Ljubov Popova progetta un impianto scenico che diventerà l'emblema della messinscena costruttivista: si tratta di un apparato composto da praticabili e impalcature in cui gli attori si muovono con un costume uguale per tutti, la tuta da lavoro blu dell'operaio, sulla quale vengono aggiunti dei particolari che contribuiscono al riconoscimento del singolo personaggio.

Manifesto per l'Ubu Roi di Alfred Jarry, rappresentato per la prima volta al Théâtre de l'Œuvre il 10 dicembre 1896


Messinscena di Amleto, Edward Gordon Craig, Teatro d'arte di Mosca, 1911

 Fortunato Depero, Bozzetto di costume plastico per Il canto dell'usignolo (1916-1917)
Le Cocu Magnifique, finale III atto


Germania: dall'espressionismo al Bauhaus
L'opposizione al realismo è evidente negli artisti espressionisti: Georg Fuchs (1868-1948) auspicava ad una rivoluzione dello spazio, in cui pubblico e attori non fossero divisi dalla quarta parete ma convergessero nella stessa zona spaziale come nelle sacre rappresentazioni.
Nella messinscena espressionista è l'allegoria che domina: per dar voce agli elementi dell'interiorità e dell'inconscio vengono concepite scene dalle prospettive oblique e irreali, in cui la forza di gravità non è presente, come nei sogni. L'illuminazione, sia negli oggetti che invade sia nelle cromie che assume, ha un carattere fortemente simbolico
Max Reinhardt raccoglie l'esortazione di Fuchs: il teatro deve nuovamente aprirsi alla comunità, nell'intento di ritrovare quella dimensione partecipativa che aveva caratterizzato il teatro greco antico. Il 15 dicembre 1916 Reinhardt allestisce il dramma La morte di Danton di Georg Büchner, con la scenografia e i costumi di Ernst Stern; la messinscena raccoglie tutti gli elementi caratteristici (luci, scene di massa) di una drammaturgia di impianto espressionista.
Oskar Schlemmer riprende invece il concetto di meccanizzazione del corpo tramite il costume, che era, come abbiamo visto, un'idea diffusa dagli artisti futuristi: la scuola del Bauhaus, fondata da Walter Gropius nella Germania di Weimar nel 1919, promuoveva un'arte (principalmente design e architettura) spinta verso la modernità, un'arte spiccatamente funzionale.
Ne Il balletto triadico, messo in scena a Stoccarda nel 1922, i ballerini, con movenze da pantomima clownesca e da marionetta, indossano costumi sezionati in varie forme geometriche (cubi, piramidi, dischi, spirali e sfere) tridimensionali e in colori accesi. Schlemmer incoraggia l'abbandono dei materiali tradizionali a favore dell'uso di materiali nuovi e di uso industriale, come il metallo, il gesso, i materiali plastici, la carta, al fine di creare nello spettatore una percezione diversa del concetto di materia, volume e spazio.

Il balletto triadicoOskar Schlemmer, 1922

Bozzetti di Oskar Schlemmer per i costumi de "Il balletto triadico" ("Das triadische Ballett", 1922) con annotazioni. Fonte:
Museum of Modern Art (MoMA): http://www.moma.org/



Bibliografia di riferimento

Angiolillo M., Storia del costume teatrale in Europa, Lucarini, Roma 1989

Barba E., Nicola Savarese, Scenografia e costume, in Id. L'arte segreta dell'attore. Un dizionario di antropologia teatrale, Argo, Lecce 1996

Bignami P., Storia del costume teatrale, Carocci, Roma 2005

Bignami P., Ossicini C., Il quadridimensionale instabile. Manuale per lo studio del costume teatrale, UTET università, Torino 2010

Guardenti R., Il costume teatrale: un lento cammino verso il realismo, inStoria del teatro moderno e contemporaneo, diretta da Roberto Alonge e Guido Davico Bonino, vol. I, pp. 1163-1193, Einaudi, Torino 2000.

Sinisi S.Cambi di scena. Teatro e arti visive nelle poetiche del Novecento, Bulzoni, Roma 1995



Claudia Fasano